2.1.2 Gli step della riforma
Possiamo evidenziare due fasi nell’evoluzione delle politiche di risposta alla nascita delle metropoli contemporanee: una prima fase in cui le politiche urbane sono volte sostanzialmente all’aumento dell’efficienza del sistema amministrativo, a garantire i servizi locali, ad adattare i territori al palinsesto di quello che definisce “Keynesian welfarenational state” (1960-1970). La seconda fase vede invece la realizzazione di politiche di scala metropolitana; esse emergono dalle esigenze dei territori e pur presentandosi simili sotto il profilo della strategicità, dell’integrazione e dell’inclusività, tendono ad adattarsi ai contesti locali più che a disposizioni giuridico-formali esogene. Mentre nella prima fase le politiche rispondono quindi a modelli nazionali omogenei, nella seconda emerge una forte specificità locale rivendicata dalle città1.
In Italia, i problemi di governo di aree territoriali caratterizzate da un diffuso processo di urbanizzazione non sorgono di recente: già negli anni ’50 vengono emessi decreti ministeriali per la formazione di piani territoriali intercomunali a Torino e a Milano. Si riconosceva che i problemi di pianificazione interessassero territori più vasti di quello di pertinenza del comune centrale. Tali decreti rimasero tuttavia inattuati (Rotelli 1999).
La necessità di attivare linee di azione pubblica in risposta ai problemi di policy sollevati dai processi di “metropolizzazione” si esplicita nel dibattito politico a partire dalla fine degli anni ’60. In particolare il “Progetto 80” porta alla luce il tema delle aree metropolitane, facendo di esse la base per la programmazione economica e infrastrutturale italiana degli anni Settanta. Il “Progetto 80”, anch’esso inattuato, vedeva nella distribuzione delle competenze tra lo Stato e le Regioni (in via di istituzione) la risposta istituzionale ai processi di urbanizzazione crescenti.
Contrariamente a quanto auspicato dagli estensori del “Progetto ’80”, l’attuazione della riforma regionale non avrebbe dato luogo a una istituzione di livello di mezzo, in grado di rappresentare una forma di governo intermedia tra il livello di prossimità e quello nazionale. La regionalizzazione, al contrario, secondo alcune interpretazioni si sarebbe risolta in una nuova forma di centralismo regionale anche perché: “Fu disgiunta da qualsiasi contemporanea riforma autonomistica dei governi locali”2.
Il dibattito sulle aree metropolitane continuerà fino a fine anni ’80 contrapponendo due posizioni, che Allulli attribuisce a Francesco Merloni e ad Paolo Urbani: la prima propone un governo metropolitano unitario, articolato in due livelli nell’ambito dei quali i comuni metropolitani sarebbero dotati di larghi spazi di autonomia ma, allo stesso tempo, il livello superiore di governo sarebbe dotato risorse sufficienti a dirimere eventuali conflittualità (tesi strutturalista); la seconda afferma invece che data la dinamicità territoriale delle grandi città non esiste autorità metropolitana che possa governare un’area in continua espansione e propone quello regionale come livello di governo adatto a produrre politiche di scala metropolitana. Come per quanto accaduto a Londra, Urbani propone addirittura la scomposizione anche del comune capoluogo, dove il gigantismo lo rende incapace di garantire un adeguato livello di erogazione dei servizi di base. Tali Comuni avrebbero organizzato il governo metropolitano sulla base di strumenti associativi di natura volontaria e flessibile (tesi regionalista). Riportiamo qui di seguito una sintesi del percorso accidentato della riforma metropolitana in Italia come ricostruito in Walter Tortorella, Massimo Allulli, Città Metropolitane. La lunga attesa, Venezia, 2014.
Legge 142/1990
In questa legge si individuavano due livelli di amministrazione locale, la Città Metropolitana e i Comuni, e si definivano come organi della Città Metropolitana il Consiglio metropolitano, la Giunta metropolitana e il Sindaco metropolitano. La legge indicava in un anno il periodo entro cui si sarebbero dovute stabilire le nuove delimitazioni delle Città Metropolitane nell’ambito delle quali si prevedeva la possibilità di fusione dei comuni dell’hinterland oltre che l’articolazione del comune capoluogo in più comuni metropolitani.
La legge indicava nove Città Metropolitane: Roma, Milano, Genova, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Venezia e Bari.
Sulla redistribuzione di competenze rispetto ai livelli di governo pre-esistenti emerge con evidenza come l’istituzione di autorità di livello metropolitano sia fonte di controversie tra gli attori coinvolti. L’Unione delle Province Italiane (UPI) avrebbe successivamente presentato un progetto di legge “rivolto a ridurre il numero dei governi metropolitani lungo la penisola”3con l’obiettivo di tutelare l’ente provinciale e di ampliarne le competenze. Al contrario l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) avrebbe, nel 2003, elaborato un progetto di legge significativo già nel suo titolo: “Città Metropolitane a modello unitario e a costituzione immediata”4.
Uno dei limiti più evidenti della legge 142/1990 restava comunque quello di attribuire alle Regioni un ruolo diretto nella delimitazione delle aree. La successione cronologica degli adempimenti prevedeva la delimitazione dell’area metropolitana entro un anno, il riordino territoriale dei comuni entro 18 mesi, e nessuna scadenza per la distribuzione delle funzioni tra la Città Metropolitana e comuni, laddove la norma lasciava a quest’ultimi esclusivamente le funzioni non attribuite espressamente all’area metropolitana (Rotelli 1999). Le regioni, che in quattro legislature non avevano delegato funzioni agli enti locali, neppure attuarono la riforma metropolitana.
Altro limite erano i criteri complessi per la delimitazione della aree il cui parametro veniva indicato nelle interdipendenze che si creano in ordine alle attività economiche, sociali e culturali. Questa scelta rendeva molto più complicato il compito della loro delimitazione, poiché sono di gran lunga più difficilmente individuabili i criteri che attestino una reale interdipendenza relazionale tra i poli di un territorio.
Legge 436/1993
Nel 1993 si prolungò di un altro anno la scadenza per la delimitazione delle Città Metropolitane e fu resa inoltre facoltativa la riforma istituzionale che la legge 142/1990 prevedeva fosse obbligatoria.
Legge 265/1999
Questa legge cerca di accelerare il processo di costituzione delle Città Metropolitane assegnando al Sindaco del Comune capoluogo e al Presidente della Provincia il ruolo di convocare l’assemblea degli enti locali interessati. L’assemblea avrebbe dovuto adottare una proposta di statuto della Città Metropolitana e indicarne il territorio, l’organizzazione, l’articolazione interna e le funzioni. (art 16 comma 2). Sulla base di questa proposta le Regioni avrebbero definito il perimetro delle Città Metropolitane.
Riforma del Titolo V della costituzione nel 2001
Le Città Metropolitane, vengono assunte al rango di enti autonomi alla pari di Regioni, Province e Comuni, ma neppure questo ha accelerato il processo di attuazione delle Città Metropolitane.
Legge 42/2009
L’art 23 comma 2 della legge sul federalismo fiscale inserisce come norma transitoria un disegno di legge del 2007 contenente nuove procedure per l’istituzione delle Città Metropolitane. In essa si prevede che in attesa della disciplina ordinaria riguardante il funzionamento delle Città Metropolitane, esse possano essere istituite sulla base di una proposta che spetta ai comuni e alle province. Le regioni hanno in questo caso solo un ruolo consultivo, mentre è previsto un referendum tra i cittadini dei comuni interessati.
L’area metropolitana una volta istituita sarebbe stata governata da un’assemblea rappresentativa denominata Consiglio provvisorio della Città Metropolitana, composta dai sindaci dei Comuni che fanno parte della Città Metropolitana e dal Presidente della Provincia. Inoltre all’area metropolitana era garantita autonomia tributaria e impositiva come agli altri enti locali.
La legge 135/2012
Le Città Metropolitane fanno ritorno nell’agenda politica insieme al controverso accorpamento delle province (art. 17 e 18 della legge, detta spending review). La legge prevedeva l’istituzione delle Città Metropolitane di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria entro il 1 gennaio 2014 e con contestuale soppressione delle relative province.
La legge istituiva una Conferenza metropolitana composta dal Presidente della Provincia e dai sindaci dei comuni del territorio, il cui compito avrebbe dovuto essere quello di elaborare lo statuto provvisorio della Città Metropolitana entro il novantesimo giorno precedente la scadenza prevista per l’istituzione dell’ente. In caso la conferenza non avesse approvato lo statuto provvisorio nei termini previsti, il sindaco del capoluogo sarebbe diventato il sindaco metropolitano e avrebbe mantenuto la carica fino all’approvazione dello statuto definitivo.
Questa legge superava il problema del veto delle Regioni e quello della natura facoltativa dell’istituzione dell’ente.
La legge Delrio 56/2014
Le Città Metropolitane sono riconosciute quali enti territoriali di area vasta, con le seguenti finalità istituzionali generali: cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano; promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse – come precisato dal Senato – della Città Metropolitana; cura delle relazioni istituzionali afferenti il proprio livello, comprese quelle a livello europeo, ossia quelle – come specificato dal Senato – con le città e le aree metropolitane europee.
1 Walter Tortorella, Massimo Allulli, Città Metropolitane. La lunga attesa, Venezia, 2014.
2 Ettore Rotelli, Le aree metropolitane in Italia: una questione istituzionale insoluta, in Guido Martinotti, La dimensione metropolitana, Bologna, 1999.
3 Walter Tortorella, Massimo Allulli, Città Metropolitane. La lunga attesa, Venezia, 2014. Pagina 32.